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Le fonti del dolore nelle malattie reumatiche: le prostaglandine presto diventeranno storia

La gestione delle malattie reumatiche oggi ha un caposaldo nei farmaci antinfiammatori. Che si tratti di osteoartrosi, di artrite reattiva, di artrite reumatoide e quant’altro, la prima linea di battaglia sono gli antinfiammatori non steroidei (FANS). Lo scopo, ovviamente, è far fronte al dolore che è la componente clinica più invalidante per i pazienti. Solitamente nelle forme reumatiche non autoimmuni, farmaci come ibuprofene, naprossene, diclofenac e nimesulide sono fra i più impiegati nella gestione quotidiana od occasionale del dolore. In presenza di condizioni autoimmuni come l’artrite reumatoide, la terapia antidolorifica è stata complementare fra FANS e cortisonici, solitamente FANS nella fase acuta ed i cortisonici per gestire il dolore cronico e permettere la recessione della malattia. FANS e cortisonici interferiscono con la produzione di prostaglandine, mediatori prodotti dall’enzima ciclo-ossigenasi 2 (COX2). Fra le opzioni più moderne ci sono gli inibitori selettivi “coxib” come celecoxib, rofecoxib ed etoricoxib, che vengono usati a cicli per evitare fenomeni di tossicità da accumulo.

Ma la strada delle prostaglandine potrebbe diventare obsoleta nel prossimo futuro. In base alle nuove scoperte, le fonti del dolore nelle condizioni reumatiche non dipendono solo dalle prostaglandine. Per esempio, gli anticorpi nelle articolazioni prima dell’inizio dell’artrite reumatoide possono causare dolore anche in assenza di artrite, secondo una recentissima scoperta dei ricercatori del Karolinska Institutet in Svezia. Nell’artrite reumatoide un sintomo precoce comune è il dolore alle articolazioni, ma prima ancora, il corpo ha iniziato a produrre anticorpi contro le proteine articolari. Dopo aver iniettato autoanticorpi leganti la cartilagine nei topi, che servivano da modello per l’artrite reumatoide umana, i ricercatori hanno scoperto che i topi diventavano più sensibili al dolore ancor prima che potessero osservare segni di infiammazione alle articolazioni. Gli anticorpi che erano stati progettati per non attivare le cellule immunitarie e innescare l’infiammazione hanno anche indotto nei topi un comportamento simile al dolore, suggerendo una maggiore sensibilità al dolore nelle articolazioni.

I ricercatori hanno scoperto che gli anticorpi che hanno causato il cambiamento comportamentale formano i cosiddetti immunocomplessi, comprendenti gruppi di anticorpi e proteine ​​della cartilagine nelle articolazioni. Questi complessi attivano le cellule del dolore attraverso i cosiddetti recettori Fc-gamma, che i ricercatori hanno scoperto erano presenti sui neuroni del dolore nel tessuto. Quando hanno coltivato i neuroni del dolore dai topi, i ricercatori hanno scoperto che le cellule venivano attivate quando venivano a contatto con gli immunocomplessi. Il processo dipendeva dai recettori Fc-gamma sui neuroni ma non dalla presenza di cellule immunitarie. Gli immunocomplessi possono quindi agire come molecole che generano dolore in sé stessi. Gli anticorpi in questi immunocomplessi possono attivare direttamente i neuroni del dolore e non, come si pensava in precedenza, a causa dell’infiammazione. Sebbene lo studio sia stato condotto su topi, i ricercatori mostrano che i neuroni del dolore umano hanno anche recettori degli anticorpi che sono funzionalmente simili a quelli del topo.

I risultati possono spiegare i primi sintomi di dolore nei pazienti con artrite reumatoide. Tuttavia, i dolori articolari e muscolari sono anche sintomi comuni di altre malattie autoimmuni, e poiché questo meccanismo recentemente scoperto opera attraverso la parte costante – la struttura centrale – degli autoanticorpi, i ricercatori ritengono che possa spiegare il dolore non infiammatorio causato anche da altre malattie autoimmuni. Questo potrebbe essere un meccanismo generale del dolore in tutte le malattie autoimmuni in cui questi tipi di immunocomplessi si formano localmente nel tessuto. Ma non è l’unica via con cui il dolore si può manifestare nelle malattie reumatiche. Nell’osteoartrosi, per esempio, ci sono prove che l’adenosina è un mediatore che se manca può condizionare la sintomatologia dolorosa a partenza dal metabolismo. L’adenosina deriva dalla degradazione dell’ATP, la principale molecola energetica cellulare, e fuori dalla cellula possiede tre tipologie di recettori con svariati effetti biologici. La ricerca ha provato che il legame dell’adenosina solamente ad un solo tipo di questi recettori, può risultare antinfiammatorio.

Meno infiammazione, automaticamente si traduce in meno dolore. L’adenosina come tale però non può essere utilizzata come tale come antidolorifico per trattare le malattie reumatiche e per almeno due motivi. Il primo è proprio il fatto che possiede tre tipologie di recettori e solo il legame con uno di essi ha mostrato vera azione antinfiammatoria. Assumere adenosina come farmaco quindi costringerebbe l’uso di dosi superiori a quelle dei comuni FANS, perchè essa mancherebbe di specificità. Secondo motivo, l’emivita dell’adenosina nel sangue è troppo breve e non raggiungerebbe un effetto terapeutico deciso. Terso, un effetto conosciuto dell’adenosina assunta per via orale è l’abbassamento della pressione sanguigna, un fenomeno che si osserva fra coloro che assumono estratti di aglio per controllare i livelli di colesterolo e trigliceridi. L’aglio, infatti, è una buona fonte naturale di adenosina prontamente biodisponibile ma non sarebbe fattibile utilizzare grandi dosi di estratti d’aglio per trattare il dolore artrosico, senza incorrere in ipotensione.

Per ultima, si cita la scoperta appena pubblicata da ricercatori della North Carolina State University. Gli scienziati hanno osservato un aumento dei livelli (o sovraregolazione) dei componenti di una via di segnalazione nel liquido articolare, nel sangue e nei nervi sensoriali dei cani con osteoartrosi naturale. I componenti in questione – il ligando artemina, e il suo recettore GFRα3 – erano noti ai ricercatori sul dolore, ma non erano stati associati alla segnalazione del dolore da osteoartrosi. In un modello murino di osteoartrite indotta chimicamente, i ricercatori hanno scoperto che GFRα3 era sovraregolato nei nervi sensoriali, proprio come nei cani con artrosi naturale, rispetto a un gruppo di controllo di topi sani. Un sottogruppo di topi malati è stato quindi trattato con anticorpi monoclonali progettati per legarsi a GFRα3, impedendo all’artemina di legarsi al suo recettore. Entro due ore dal trattamento con gli anticorpi, la funzione degli arti era tornata a livelli normali nei topi trattati, indicando che la via artemina/GFRα3 molto probabilmente gioca un ruolo importante nel dolore acuto da osteoartrosi.

Anche se l’utilizzo di anticorpi monoclonali potrebbe essere troppo costoso, e quindi difficoltoso da accedere, la progettazione di farmaci mirati ad impedire l’interazione fra artemina ed il suo recettore è sicuramente più fattibile. Vedremo sicuramente entrare nel mercato, in sordina, qualche nuova molecola che prende di mira le vie biologiche appena citate; e se avranno una maggiore maneggevolezza e sicurezza si potranno evitare i tanti spiacevoli effetti collaterali posseduti dai comuni antinfiammatori.

  • A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.

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